USCIRE DALL’ANSIA

“Salve, da anni sono perseguitata dall’ansia: mi impedisce di uscire – troppa paura di avere un attacco di panico mentre sono fuori! – mi impedisce di fare vacanze, o vedere gli amici, o anche solo prendere un mezzo pubblico. I farmaci non mi hanno aiutato, anche se senza starei molto peggio. Cosa posso fare?”

Cara amica,
vivere costantemente accompagnati dall’ansia e dal panico significa vivere una vita a metà. Siamo limitati nelle attività quotidiane, costantemente in allarme, e finiamo per sentirci sempre più isolati: è difficile spiegare a chi non ha provato queste emozioni con questa intensità cosa significhi davvero!

Tuttavia possiamo davvero fare qualcosa: il primo passo è iniziare ad uscire da un circolo vizioso che ci imprigiona, costruito sulla paura della paura.

L’ansia e la paura (perché l’ansia è questa sensazione di paura di cui non riusciamo a indicare chiaramente il motivo) sono emozioni pensate per proteggerci dai pericoli e aumentare la nostra capacità di evitarli. Sono ottime alleate, a patto di non iniziare a temere la paura stessa! Chi soffre di ansia, non riuscendo spesso a comprendere a cosa si riferisca questo senso di allarme, finisce per sviluppare un grande timore per i sintomi fisici dell’ansia. In questo modo, qualsiasi piccola variazione del battito cardiaco, della respirazione o di qualsiasi altro segnale corporeo legato all’ansia, finisce per essere interpretato come un segnale di pericolo e… scatenare l’ansia!

Non solo. Quando siamo preda dell’ansia, naturalmente evitiamo ogni situazione di pericolo: è l’evitamento. Ma se è proprio l’ansia a metterci in ansia (lo abbiamo visto sopra), ogni situazione che possa farci anche solo lievemente provare qualche segnale di ansia diventa un pericolo e la eviteremo: finiamo così per limitarci, chiuderci in casa, evitare un autobus affollato o una metro che viaggia sottoterra.

La buona notizia è che possiamo uscire da questo circolo vizioso, con una buona terapia cognitiva che ci faccia comprendere cosa ci mette davvero ansia, e con un programma di esposizione graduale alle situazioni che crediamo erroneamente pericolose.

Dall’ansia e dal panico si può uscire!

LA SCIENZA DELL’ AMORE: QUANDO LA TERAPIA SI FA IN COPPIA

Se dovessi chiedervi cosa rende una relazione di coppia felice, cosa rispondereste?
Forse la fedeltà, l’impegno o l’intimità. Oppure la compatibilità tra i partner della coppia, comunque sia formata. E avreste ragione – ma solo in parte.

Quello che la ricerca scientifica ha ormai chiaro da decenni è che per vivere una vita di coppia sana, felice e soddisfacente, l’ingrediente “segreto” è la capacità dei partner di essere emotivamente responsivi. Ma cosa significa? Vediamolo insieme, partendo dall’inizio, ossia dalla nostra infanzia.

Gli esseri umani sono unici sulla Terra: abbiamo un’infanzia lunghissima rispetto a tutti gli animali, anche paragonata a quella dei nostri “cugini” più stretti, gli scimpanzé e i bonobo. Occorrono almeno 14 anni prima che i nostri cuccioli diventino sufficientemente autonomi e sessualmente maturi per riprodursi. Un tempo enorme! Non solo: quando inventammo la cultura e la civiltà, e la necessità di tramandarle e arricchirle, questi tempi si sono ulteriormente allungati, coprendo anche i tre decenni di vita nei paesi più sviluppati. Tuttavia sostenere i nostri discendenti per un periodo di tempo così lungo è stata la mossa vincente della nostra evoluzione: ci ha permesso di continuare a crescere e diffonderci in un modo che altri animali non sono riusciti a fare. E questo grazie alle lunghe e complesse cure parentali, che i genitori forniscono ai figli.

Alla base di questo comportamento, l’etologia (ossia la scienza che studia il comportamento animale) e la psicologia hanno individuato un sistema di motivazioni, comportamenti ed emozioni che chiamiamo attaccamento.

Il sistema di attaccamento tra i genitori e i figli ha garantito le cure e il sostegno necessari, perché gli esseri umani sopravvivessero e prosperassero. In altre parole, siamo vivi perché abbiamo ricevuto amore, e abbiamo saputo darlo ai nostri figli. Le relazioni affettive sono così fondamentali, che l’attaccamento guida – in un certo senso – tutte le altre nostre motivazioni: l’esplorazione, il sesso, la competizione, la collaborazione, il gioco e la ricerca di un significato per la nostra vita. Solo se ci sentiamo sicuri, infatti, possiamo collaborare tra noi, dedicarci ad esplorare, a fare sesso, e così via. In altre parole: l’amore è il segreto del successo della nostra specie.

Quando ci innamoriamo e creiamo un legame sentimentale – indipendentemente dal nostro orientamento sessuale o dal nostro genere – il “sistema dell’attaccamento” è all’opera. Ci legheremo a qualcuno che ci faccia sentire al sicuro, a cui tornare quando sentiamo di essere stanchi, dolenti o impauriti, che sappiamo comprenderà quello proviamo e ci sosterrà: qualcuno che è lì per noi. E per cui anche noi saremo presenti.

Talvolta però anche in paradiso possono esserci problemi: il modo in cui chiediamo e offriamo questo sostegno può fare la differenza. Se sentiamo che il nostro partner non risponde, possiamo arrabbiarci e iniziare a chiedere con insistenza – ma spesso in modo indiretto e poco chiaro – l’affetto di cui abbiamo bisogno. I conflitti, e l’incomprensione dei veri motivi alla base di questi conflitti, può farci sentire attaccati e poco amati, e indurci a chiuderci e a ritirarci. Speriamo così di abbassare la “temperatura”, e proteggere la relazione. Un allontanamento che può essere avvertito paradossalmente come un’ulteriore mancanza di affetto, entrando in un ciclo infinito ed estenuante di litigi.

In questi, e in molti altri casi in cui i partner si cercano e cercano l’affetto reciproco senza riuscire a trovarlo, la terapia di coppia basata sull’attaccamento (o EFT Emotionally Focused Therpy) può offrire un aiuto reale e scientificamente validato.

In una terapia di coppia non cerchiamo “chi sbaglia”, o “di chi è la colpa”; non cerchiamo soluzioni a come organizzare la casa, o come gestire suocere o suoceri importuni. In una terapia di coppia orientata all’attaccamento cercheremo di ritrovare, rafforzare e sviluppare la nostra capacità di rispondere emotivamente i bisogni dell’altro. Da qui, naturalmente, i partner potranno trovare autonomamente le soluzioni pratiche alle mille sfide che la vita ci lancia.

L’infelicità in coppia non è un destino: siamo fatti per amare ed essere amati. E oggi sappiamo come farlo.

CONSUMARSI NEL DUBBIO: SONO GAY?

“La mia domanda è un po’ strana e imbarazzante. Mentre guardavo un film porno, ho notato che guardavo troppo gli attori e i loro genitali… mi sono chiesto perché, e ho cominciato a dubitare di me: non è che sono gay? Da quel momento questo pensiero non mi è più uscito dalla testa, sto sempre a fare prove per capire se le donne mi piacciono o no. Ho sempre avuto ragazze, non ho mai avuto storie con uomini né ci ho mai fatto sesso, e se mi fermo a pensarci non mi attrae proprio la cosa. La mia ragazza è stanca di sentire tutte le mie lamentele al riguardo. Sto male, e mi sembra di non riuscire a uscirne. Che posso fare?”

Gentile Amico,

ho letto la tua storia, e ho ritrovato tanti racconti simili, di tanti pazienti, sia uomini che donne: la fatica estenuante e la sofferenza di mettersi continuamente alla prova può consumarci, e farci cadere i depressione.

Quello che ci descrivi sembra proprio essere un DISTURBO OSSESSIVO-COMPULSIVO (DOC). Chi è vittima del DOC, è assediato e invaso da immagini spiacevoli, pensieri penosi, talvolta violenti e/o sessuali, che spingono a continue verifiche. Ad esempio si può essere in preda al dubbio di aver investito qualcuno con la propria auto e non essersene accorti, costringendoci a tornare indietro più e più volte per verificare…

Questo accade perché abbiamo perso la FIDUCIA in quello che percepiamo.

Per questo, ti inviterei a trasformare la domanda: “Sono gay?”, in questa: “Perché non ho fiducia in quello che sento?”

Quando siamo preda del dubbio ossessivo, diamo più importanza ai pensieri che alle sensazioni che proviamo: il pensiero “Forse sono gay” diventa più “vero” che la risposta immediata del nostro corpo, le emozioni che proviamo semplicemente e direttamente.

Una terapia in questi casi è fondamentale, e dovrebbe aiutarci a fare esperienza che i nostri pensieri sono SOLO pensieri, non fatti, e che valgono sempre meno di quello che sentiamo. In questo, la pratica della mindfulness può essere un aiuto eccezionale! Esiste un percorso specifico per uscire dal DOC.

Spero che tu possa stare meglio presto, e che vorrai intraprendere una psicoterapia per ritrovare la tua serenità.

Con i migliori auguri,
dr. Ventura

Se vuoi prenotare un incontro, anche on line, qui sotto troverai l’agenda per fissarlo!

Stefano Ventura – MioDottore.it

L’AUTUNNO TRISTE

“Salve, come ogni autunno il mio umore tende a peggiorare: divento triste, svogliata, ansiosa. Che fare?”

Cara Amica,

spesso avvertiamo che il nostro umore segue un andamento stagionale: periodi come l’autunno e talvolta la primavera (e i cambi di stagione in generale) ne mettono a rischio la stabilità.

La malinconia e l’autunno

Per comprendere cosa fare occorre fare una distinzione importante. Se nella nostra vita abbiamo attraversato il territorio oscuro della depressione, è bene non trascurare questi sintomi, e rivolgerci subito al medico, allo psichiatra o al terapeuta che ci ha seguito. e se non l’abbiamo fatto finora, è bene considerare di chiedere aiuto. La depressione, infatti, è una malattia recidivante e limita molto la qualità della nostra vita. Per fortuna la psicoterapia e i farmaci sono molto efficaci!

Se invece si tratta di una oscillazione dell’umore che tende a passare col tempo, ma non limtia in modo significativo la nostra vita, ci sono molte cose che possiamo fare per alleviarla.

Il primo consiglio è dedicarsi all’attività fisica. Muoverci – facendo qualcosa che ci dia divertimento e soddisfazione – è un toccasana per il nostro umore, poiché aiuta il corpo e il cervello a mantenere regolati neurotrasmettitori e ormoni.

Anche la pratica della meditazione può aiutare, soprattutto se avvertiamo un senso di agitazione e ansia.

inoltre è opportuno dedicare più tempo ai rapporti: coltivare amicizie e scambi sociali ci fa sentire bene, stimolando il senso di appartenenza.

Da ultimo, è anche utile ricordare che la tristezza, come qualsiasi altra emozione, è parte della vita e che possiamo semplicemente ascoltare quello che ci dice: forse ci sta preparando ad accettare il cambiamento. Perché non accoglierlo?

con i milgiori auguri,

dr. Ventura

SHTISEL, O DELL’AMORE

“Benedetto sei tu, Signore, che hai creato tutto con la tua parola.” I protagonisti della serie televisiva Shtisel, in onda sulla piattaforma Netflix, recitano costantemente questa benedizione prima di bere o mangiare. Sono ebrei haredim, una comunità ultra-ortodossa, che vive in Israele rispettando una interpretazione molto rigorosa dell’ebraismo.

Giunta ormai alla quarta stagione, questa serie è un vero e proprio regalo, che vi consiglio di farvi. E nel resto di questo articolo cercherò di spiegare perché secondo me lo è. Innanzitutto, dipinge con delicatezza, poesia e ironia una comunità così gelosa del proprio stile di vita, da rifiutare gran parte della tecnologia che oggi accompagna ogni nostra giornata. Niente tv, o smartphone, e soprattutto niente internet. Questo perché rappresentare la figura umana è un atto in un certo senso sospetto, che avvicina al peccato più grande per la religione ebraica: l’idolatria. Non solo: donne e uomini vivono separati fino al matrimonio. Tanto che per trovare una moglie occorre rivolgersi ad un sensale, ossia qualcuno che combini un incontro tra due pretendenti. E con una certa urgenza, non appena possibile, visto che la condizione di single, tanto per gli uomini che per le donne, non è molto accettata (un’espressone eufemistica per dire che è un temuto disonore).

Michael Aloni Landscape | JNF UK
Michael Aloni

Questo è lo scenario su cui si svolgono le vicende sentimentali e familiari del protagonista della serie, il giovane rabbino Akiva Shtisel (interpretato da un bravissimo Michael Aloni) scapolo e con la vocazione per la pittura, che si innamora di una donna, vedova e molto più grande di lui (e, se ve lo state chiedendo, no neanche questo è ben visto). A rifletterci, non si vede cosa possa andare storto…

La serie, tuttavia, non si sofferma solo sul giovane Akiva, intreccia le vicende della sua intera famiglia, in un racconto corale, realistico ma gentile, in cui ciascuno e alle prese con le tante, talvolta troppe, difficoltà della vita: lutti, separazioni, ricongiungimenti, il passare del tempo con l’inevitabile crescita e l’altrettanto inevitabile invecchiamento. E, ovviamente, la morte. Una presenza silenziosa e intima, che accompagna molti dei protagonisti

Il cuore della serie, tuttavia, non è la descrizione antropologica di una realtà così particolare e separata, né dipingere l’ennesimo ritratto di famiglia, questa volta in versione ebraica ultra-ortodossa. Credo che il nucleo attorno a cui gravitano le storie di ogni personaggio sia un altro.

Per spiegarmi meglio, torniamo alla benedizione con cui abbiamo iniziato. Immaginiamo di ripeterla decine di volte al giorno, fermandoci per portare attenzione a quello che stiamo per fare, per ricordarcene. Immaginiamo di ascoltarci ripetere queste parole, e di ascoltarle da chi ci sta intorno, proprio mentre stiamo per compiere il gesto più fondamentale per la vita: nutrirci. Che effetto ci farebbe?

Qual è il significato di questa formula? Forse è un atto di sottomissione, o di gratitudine; o ancora, una dichiarazione di dipendenza radicale dalla divinità. Non è forse questa la religione? Certo, possiamo considerarlo in ciascuno di questi modi, e molto probabilmente, in tutti contemporaneamente. Ma vorrei aggiungere che potremmo vederci anche (e forse soprattutto) un atto di amore: di fronte al sorso d’acqua che per lo più diamo per scontato, ci arrestiamo, richiamiamo alla mente l’atto creatore di Dio, e condividiamo il suo sguardo benevolo verso la sua creazione, che è buona, degna di benedizione, gratuitamente donata – è amore, appunto. Uno sguardo che si rivolge in particolare verso gli esseri umani, fatti a immagine della divinità. La religione diviene così modello e figura dell’amore umano, della nostra capacità di riconoscere il bene, nel mondo e nel prossimo, e di onorarlo, coltivarlo e accudirlo, ossia di farlo crescere. Benedire ci educa ad amare.

Ma cos’è l’amore? credo che questa sia la domanda che muove i protagonisti di questa serie. Tutti sono alle prese, Akiva per primo, con questo sentimento, o per meglio dire, con questa particolare interazione con il mondo, così misteriosa e difficile da comprendere, che lega nel nostro cuore il sorso d’acqua che benediciamo alle persone che attraversano la nostra esistenza.

Ciascun personaggio, seguendo il filo della sue vicende, conoscerà in quanti modi incontriamo e viviamo l’amore: cura, forza che ci fa resistere agli abbandoni, legame che ci mantiene uniti oltre la morte; la spinta che fa crescere, l’attenzione che educa e, qualche volta, corregge senza rabbia – quel tanto che basta. Ma soprattutto l’amore è attesa.

Perché l’attesa sarebbe una delle caratteristiche più importanti dell’amore? Per rispondere, cercherò di raccontarvi brevemente una delle teorie più importanti della psicologia contemporanea: la teoria dell’attaccamento di John Bowlby.

Una base sicura

Nella prima metà del XX secolo, John Bowlby si allontanò dalla ortodossia psicoanalitica, spiegando il disagio psicologico a partire da carenze nel rapporto di cura e accudimento tra il caregiver (ossia chi offre cure al neonato e all’infante, solitamente la madre) e il bambino: al centro della nevrosi (e non solo) non c’erano conflitti inconsci provocati da desideri aggressivi o sessuali, ma una distorsione delle cure necessarie al bambino. In base alla storia di accudimento, infatti, ciascuno di noi forma delle attese (per lo più inconsce) su cosa aspettarsi nei rapporti affettivi, e sulla nostra stessa identità. In breve, nella nostra infanzia apprendiamo come chiedere (o non chiedere) cure e sostegno, cosa dovremmo aspettarci quando siamo in intimità con qualcuno. In breve cosa significa amare ed essere amati – e come possiamo ottenere quest’amore.

Non mi dilungherò ora sugli sviluppi di questa teoria, che è a tutti gli effetti il paradigma che unifica tutti gli approcci di psicoterapia (sia quelli nati dalla psicologia dinamica di Freud, che le psicoterapie cognitive -e non solo). Dedicherò alla teoria dell’attaccamento altri articoli su questo sito. Quello che ci interessa è che – principalmente e perlopiù – il bambino o la bambina considera il caregiver come una base sicura: la persona a cui tornare quando si sente impaurito o stanco, che lo o la attende, disponibile e accogliente. Quando il bambino sente che questa figura è prevedibile, sollecita e responsiva, sviluppa la sicurezza di potersi allontanare, certo di poterla ritrovare.

Ecco perché (tra le altre cose) sentirsi amati è sentirsi attesi: la base sicura a cui tornare è qualcuno che ci accoglierà, così come siamo.

Una volta divenuti adulti, questa speranza anima i nostri rapporti d’amore: ciascuno di noi, quando si innamora, spera di trovare nell’altro colui o colei che la accoglierà, così com’è, e saprà attenderci quando ci allontaneremo, rimanendo una base sicura.

L’attesa è quindi una promessa di intimità, di aperura, e di condivisione.

Questo è vero sempre, anche in tutti quei rapporti complicati, dolorosi e difficili, in cui cerchiamo, senza trovarle, le braccia accoglienti dell’altro, come se nei nostri rapporti cercassimo di riparare quello che non c’è stato, ripetendo contemporaneamente gli atteggiamenti che ci hanno difeso, ma che ora ci fanno soffrire.

Attendere con una valigia

Per sostenere quanto ho detto fin qui su amore, attesa e intimità, vorrei proporvi un breve dialogo tratto dalla serie,

In una scena del secondo episodio della prima stagione, Akiva incontra Elisheva, la vedova di cui è innamorato, nella hall di un hotel, come spesso accade nelle usanze haredim circa gli appuntamenti combinati in vista di fidanzamenti e matrimoni. Il loro dialogo, che riporto con qualche descrizione per comprenderne il contesto, non è come il “solito” incontro tra sconosciuti che cercano di capire se possono stipulare una sorta di contratto. È un dialogo seduttivo sull’attesa, e quindi sull’amore.

Elisheva (da ora in poi El)-L'ho fatta aspettare, scusi.
Akiva (da ora in poi Ak)-Ma è qui. Ora.
El-L'avrò fatta aspettare almeno 20 minuti.
Ak-Fa lo stesso. Dico sul serio. (Esita) Ho letto su un libro che la parola "attesa" significa aspettarsi cose che non succederanno.
El-Pensavo che stessimo aspettando il Messia (sorride con ironia). Passiamo gran parte del tempo ad aspettare, se ci pensa. L'autobus, un appuntamento dal dottore. L'acqua che bolle in pentola. Che ci venga sonno. (Sorride) Nella hall di un hotel.
Ak-E lei?
El-Cosa?
Ak-Cosa sta aspettando?
El-Io… Diciamo che ho smesso di aspettare. Aspetto che Israele [il figlio di Elisheva, ndr] cresca, si sposi e trovi un lavoro.
Ak-E personalmente? c'è qualcosa che aspetta?
El-La resurrezione dei morti? (Si ferma) La spavento Akiva?
Ak-Per niente. Faccio spesso questo sogno. Vedo una donna seduta su una panchina. Ha una valigia marrone e sta aspettando qualcuno.
El-Chi?
Ak-Non lo so. Ma è sempre molto triste. Triste quanto bella.
El-Se fosse arrivato tardi, mi avrebbe vista qui mentre aspettavo.
Ak-Giusto (Sorride). Non ha una valigia, ma sarebbe stato bello.
El-Magari dovremmo provare.
Ak-(Un po' sorpreso) Cosa?
El-Ricominciare da capo, ma stavolta sarebbe lei ad arrivare tardi.
Ak-(Ride) Adesso?
El-Sì.
Ak-Va bene. D'accordo. allora mi alzo?
El-Sì.
(Ak esce, rientra, si ferma sulla porta girevole ad osservare El, che intanto è seduta al posto di Ak, e legge un giornale aspettando. Ak si siede.)
Ak-Salve. Scusi il ritardo.
El-Non dica sciocchezze (Ride). Senta questa. Una coppia di anziani giapponesi è andato a letto con una coperta termica. Li hanno trovati tre giorni dopo, completamente carbonizzati, l'uno nelle braccia dell'altra.
(Ak dapprima è interdetto, poi sorride)

Akiva è innamorato di Elisheva: la vede per chi è, e vorrebbe accoglierla nella sua vita. Ma la donna ha conosciuto altri due mariti, entrambi morti: sa cos’è il dolore della perdita, e ora teme di legarsi. Nelle prime battute di questo dialogo, Akiva prova a conoscerla, le chiede di lei, ma Elisheva si ritrae, è ironica ed elusiva. Così Akiva le si fa incontro, con fiducia, e si apre, raccontandole un sogno – un aspetto molto intimo di sé. Implicitamente sembra chiederle se sia lei la bella donna con la valigia – un particolare interessante, su cui torneremo a breve.

Elisheva prende fiducia, accetta l’intimità con Akiva e gioca – proprio come farebbe un bambino col suo caregiver. Propone ad Akiva di invertire i ruoli: che sia lei ad aspettare. Akiva accetta, ora è lui l’atteso. Proprio come avviene in un rapporto adulto equilibrato in cui non ci sono ruoli fissi, e ciascuno dei partner è la base sicura per l’altro, accudisce ed è accudito, condivide il gioco, attende ed è atteso.

La scena si conclude con la storia dei due amanti giapponesi, morti insieme carbonizzati: un avvertimento sulle paure di Elisheva riguardo all’amore? Oppure intende incoraggiarlo, alludendo a quanto sia importante per lei questo sentimento, tanto da andare oltre la morte? Forse entrambe le cose: ricordate che cerchiamo nei rapporti quello che abbiamo sentito ci è mancato durante la nostra crescita?

Akiva ora ha un compito: convincere Elisheva che può lasciarsi amare – senza finire carbonizzata.

E la valigia?
Amore ed esplorazione vanno sempre insieme: chi amiamo avrà sempre una valigia accanto a sé. Sapremo attendere il suo ritorno?

FERAGOSTO BLUES: COME GESTIRE LA TRISTEZZA E L’ANSIA DELL’ESTATE

“Salve, purtroppo agosto è sempre stato un periodo difficile per me: la solitudine mi pesa molto, mi sento triste, dormo molto male (forse anche per colpa del caldo), e nella mente si affacciano tani pensieri cupi e preoccupazioni per il futuro. Come posso fare?”

Gentile amica,

l’estate e soprattutto il periodo di agosto può essere molto difficile per chi non ha potuto organizzare una vacanza, o si ritrova in solitudine in una città senza iniziative, per lo più chiusa, senza possibilità di contatti.

In un contesto come questo poi, in cui tutti sentiamo il peso delle limitazioni dovute alla pandemia, questa condizione può diventare molto difficile da sostenere. Si possono sviluppare così i sintomi della #depressione: umore triste per la maggior parte del tempo, sensazione di mancanza di scopo e significato nelle nostre azioni, diminuzione del piacere che ci danno le nostre passioni e i nostri hobby, diminuzione del desiderio sessuale, aumento o diminuzione dell’appetito, problemi con il sonno, ma soprattutto senso di inadeguatezza, pensieri di critica e colpa, preoccupazioni per il futuro.

Cosa fare?

Innanzitutto, se la situazione è insostenibile, è opportuno rivolgersi ad un professionista della salute mentale: se ci sono sintomi di depressione clinicamente rilevanti, occorre prendersene cura sia con la psicoterapia che con gli opportuni famaci (che no vanno demonizzati!).

Per le situazioni meno preoccupanti, è utile seguire il messaggio che la malinconia e la tristezza ci portano: concentrarci su di noi, fare ordine, prenderci cura della nostra interiorità. Questo si può fare in molti modi, ad esempio curando la forma fisica con lunghe passeggiate nelle ore più fresche, con la corsa, o con un abbonamento in palestra (ormai se ne trovano sempre aperte ad agosto), oppure concedendosi qualche giorno di mare o di piscina ANCHE DA SOLI.

E’ fondamentale poi riscoprire la propria creatività: scrivere, disegnare, scolpire, apprendere qualche tecnica che non si è aveva il tempo di imparare durante l’anno. Ci sono ottimi corsi on line che si possono seguire. Anche leggere, andare al cinema e frequentare luoghi d’arte è riscoprire la propria creatività. All’inizio questo può sembrare poco spontaneo o e forzato, e lo è. Ma è una sensazione che passa velocemente, con il piacere di fare cose per se stessi.

Anche la #meditazione e la #mindfulness possono offrire uno spazio per prendersi cura di sé.

Possiamo trasformare l’isolamento e la solitudine in un’opportunità di crescita personale: ti auguro di cogliere questa opportunità e di stare meglio!

con i migliori auguri,
dr. Ventura

ACCETTARE UN COMING OUT

“Amo mio figlio, e voglio che sia felice. Ma quando mi ha detto di essere gay, sento che qualcosa è cambiato. Forse per un padre è più difficile, non so… cosa posso fare?”

Caro amico,

sei molto coraggioso ad ammettere che il coming out di una figlia o di un figlio può essere difficile da accettare. Nessuno, infatti, ci prepara a comprendere cosa sia sia l’orientamento sessuale o l’identità di genere, e possiamo sentirci spaesati e confusi quando un nostro caro ci fa questa “rivelazione”.

Molti genitori iniziano a temere che il figlio o la figlia possano essere trascinati in “giri strani”, o che resteranno soli, o che non avranno mai figli. Nessuna di queste preoccupazioni è però reale: i giovani uomini e donne gay, lesbiche, bisessuali o transessuali non hanno un “destino segnato”. E non ti stupirai di sapere che molti genitori di gay e lesbiche sono diventati nonni felici.

Forse puoi sentirti in colpa, e potresti rimproverati di aver sbagliato qualcosa, ma non è così. L’orientamento sessuale è una normale caratteristica umana, che varia da persona a persona, e non è collegato a nessuna patologia. Puoi pensare alle preferenze sessuali di tuo figlio come al colore dei suoi occhi: è così, senza scelta, e senza nessuna malattia o colpa.

Nella tua domanda dici una cosa importantissima: vuoi che tuo figlio sia felice. Questo è tutto quello che è necessario per accettarlo così com’è. e per parlare con lui, senza timori, informarti, condividere con altri papà e mamme di omosessuali la tua esperienza. Hai mai pensato di contattare l’Agedo, l’Associazione di Genitori di Omosessuali?

Auguro a te e a tuo figlio ogni felicità!

dr. Ventura

Mindfulness e regolazione emotiva

Immaginate di viaggiare nel tempo e nello spazio, fino alla sera del 23 febbraio 1993, in America. Siete seduti comodamente sul vostro divano per godervi Healing and the Mind, il seguitissimo programma tv di Bill Moyers su mente e salute. Sul vostro schermo un piccolo gruppo di meditanti siede con gli occhi chiusi, guidati da un giovane biologo nella posizione del loto, in camicia e cravatta. Quel giovane è Jon Kabatt-Zinn, l’ideatore del Programma per Gestire lo Stress basato sulla Consapevolezza, o MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction programme). La sua apparizione in quella trasmissione sancì il successo di pubblico che la mindfulness aveva acquisito in quattordici anni di applicazioni e ricerca medica; un successo che Zinn aveva iniziato a conquistare già tre anni prima, con il suo best seller  “Full Catastrophe Living”, una vera e propria guida per avventurarsi nella pratica antica ma così attuale della meditazione di consapevolezza.

Dopo oltre 40 anni di applicazioni, la mindfulness ha rivoluzionato il panorama della psicologia, dell’educazione e del lavoro, perché, come l’IE, ci invita a riconsiderare il rapporto con noi stessi, gli altri e il mondo, migliorando la nostra capacità di regolare le emozioni.

Manuale per istruttori mindfulness

Al centro della pratica della mindfulness, infatti, c’è l’intenzione aperta e gentile di riportare la nostra attenzione al corpo e alle sue percezioni, ai pensieri, e soprattutto alle emozioni che si manifestano nel corpo e nei pensieri, coltivando l’equilibrio dell’accettazione e la libertà di una risposta che include tutta la nostra esperienza.

Abbiamo parlato in un altro articolo di Intelligenza Emotiva (IE), Ebbene non vi sorprenderà sapere che mindfulness e IE sono strettamente legate. Non è un caso infatti che lo stesso Goleman pratichi la meditazione di consapevolezza, tanto da dedicare a questa tradizione millenaria la sua tesi di dottorato, che divenne nel 1989 il volume  “The Meditative Mind”, pubblicato nel 1997 in Italia con il titolo  “La Forza della Meditazione”. Un altro classico, che continua a uscire in nuove edizioni in tutto il mondo. Complimenti, Mr. Goleman!

Stefano Ventura – MioDottore.it

QUANDO DECIDERE È IMPOSSIBILE

“Da sempre ho avuto grandi problemi a decidere, ma ora è diventato così difficile da provocarmi un’ansia sempre più forte. Non so scegliere tra i pro e i contro. Mi sto preoccupando molto! Che fare?”

Caro amico, la difficoltà cronica a prendere decisioni è spesso associata ad alcuni disturbi, come quello ossessivo-compulsivo o di accumulo.

Da quel poco che mi racconti, non saprei dire se ne sei affetto. Tuttavia, c’è una frase che potrebbe aprire uno spiraglio: dici di valutare approfonditamente i pro e i contro di ogni scelta. Questo mi fa pensare che tu adotti uno stile “iper-razionale” (per così dire) quando devi assumerti la responsabilità di una decisione, affidandoti molto al tuo pensiero, alla deduzione e al calcolo.

In questo quadro quello che sembrerebbe mancare sono le emozioni: alcune scelte ci piacciono di più, altre di meno, ci suscitano gioia, curiosità, ci sfidano a dimostrare chi vorremmo essere, ci disgustano, ci fanno arrabbiare, o semplicemente ci annoiano. Nel tuo soppesare le opzioni di fronte a te, quanto riesci ad ascoltare le tue emozioni?

Non è un discorso blandamente romantico e “irrazionalista”: le emozioni sono valutazioni della situazione, ci dicono cosa significa la situazione per noi che la viviamo, e soprattutto ci dispongono all’azione. Considerarle, ti darà l’energia per muoverti in una direzione: quella che avrai scelto.

Con i migliori auguri
dr. Ventura